La diffusione del doppio cognome ha suscitato un interesse significativo dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha reso illegittima la trasmissione automatica del cognome paterno ai figli. Questo studio si propone di esaminare l'adozione del doppio cognome nei neonati torinesi nel periodo compreso tra giugno 2022 e dicembre 2023. L'analisi si basa su 8650 atti di nascita registrati presso il comune di Torino. Nel periodo post-sentenza, l'84,7% dei neonati ha ricevuto solo il cognome paterno, mentre il 12,1% ha ricevuto il doppio cognome. Tuttavia, il primo cognome è generalmente quello paterno nel 92,6% dei casi di doppio cognome. L'incidenza del doppio cognome è stata analizzata anche in relazione alla cittadinanza dei genitori e allo stato civile della madre. Si osserva un’associazione significativa tra stato civile e scelta del cognome, con un maggiore utilizzo del doppio cognome tra le madri non coniugate. Inoltre, le “coppie miste” con madre italiana e padre straniero mostrano una tendenza più marcata verso l'uso del doppio cognome, suggerendo che questa scelta possa riflettere una strategia per mantenere parte dell’identità italiana laddove la trasmissione automatica del cognome paterno non lo consentirebbe. Inoltre, la distribuzione del doppio cognome sul territorio comunale risulta molto variabile, con una concentrazione maggiore nei quartieri semi-centrali e a ridosso della collina. La distribuzione è statisticamente spiegabile in buona misura con il reddito medio del quartiere e ciò è interpretabile come indicatore dell’influenza di orientamenti culturali relativi alla parità di genere e alle relazioni familiari, maggiormente diffusi nei quartieri a più alto reddito. Seguendo la teoria della diffusione delle innovazioni di Rogers, l’analisi suggerisce che l'adozione del doppio cognome richiederà tempo e un ambiente socio-culturale favorevole. In base alla teoria e ai risultati empirici ottenuti finora si può ipotizzare che al momento siano solo i cosiddetti early adopters ad aver scelto di sperimentare l’innovazione costituita dal doppio cognome.
Ringraziamenti
L’autore ringrazia Katya Finardi del Comune di Torino per il puntuale lavoro di raccolta e trasmissione dei dati degli atti di nascita; i colleghi Francesco Fiermonte e Davide Pellegrino del Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio dell’Università e del Politecnico di Torino per la realizzazione della mappa presentata in Figura 3; i colleghi Giulia Dotti Sani, Riccardo Ladini e Francesco Molteni del Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università di Milano per i commenti a una prima versione di questo testo.
Questo saggio si propone di arricchire il dibattito sulla ristrutturazione del modello di sviluppo del Piemonte, una delle regioni più industrializzate d’Italia. I suoi quattro obiettivi sono: a) individuare le principali fragilità del sistema socio-economico; b) fornire una panoramica semplificata delle politiche di sviluppo degli ultimi anni; c) approfondire alcuni interventi significativi a sostegno dell'economia piemontese; d) riflettere sull'adeguatezza di tali politiche. Il saggio inizia evidenziando le sfide del Piemonte nel ritorno ai fasti del passato, confrontandosi con altre regioni settentrionali caratterizzate da una ricchezza pro-capite più elevata e una disoccupazione più contenuta. Si sottolinea la necessità di arrestare il declino, ma si evita di enfatizzarlo e ci si focalizza sulla complessa transizione da un passato manifatturiero a un'economia pluri-specializzata, evidenziando lo sbilanciamento dell’asse del suo sviluppo, sia sul piano geografico che strutturale. L'analisi delle politiche di sviluppo rivela interventi che, anziché equilibrare lo sviluppo, tendono a rafforzare la postura tradizionale, privilegiando il settore manifatturiero rispetto ai servizi e mostrando una minore attenzione alle PMI rispetto a quanto fatto in altre regioni del Centro-Nord. Le rappresentazioni della traiettoria di sviluppo tra policy-makers e altri stakeholder piemontesi sono ancorate al passato, focalizzandosi sulla manifattura e sull'azione rinnovata delle imprese capo-filiera. Tuttavia, questa visione limita le prospettive di sviluppo, restringendo l'orizzonte a quanto già conosciuto. La crisi del settore automotive, e della sua impresa principale, non ha messo infatti in discussione il modello di sviluppo basato sulle reti gerarchizzate, ma è per lo più interpretata come una fase della storia economica regionale che potrebbe essere superata con l’emergere di altre imprese leader. Le conclusioni suggeriscono la necessità di rinnovare la cornice epistemica per lo sviluppo futuro del Piemonte, con un'attenzione particolare alle imprese di medie e piccole dimensioni, alla servitizzazione della manifattura e alla diversificazione nei modelli di sviluppo sub-regionale.
L’obiettivo di questo studio è la ricostruzione del quadro delle trasformazioni del Terzo settore innescate dalla pandemia di Covid-19. In particolare, il progetto si propone di ricostruire le trasformazioni e le strategie a partire da due dimensioni: quella politica e quella economica. Su entrambi i fronti, infatti, la crisi determina al contempo rischi e opportunità che possono impattare profondamente sulla vita degli enti e sul ruolo che il Terzo settore ricopre nella nostra società.
La prospettiva adottata si concentra nello specifico sulle conseguenze che questo scenario ha avuto e avrà sulle organizzazioni di Terzo settore: in che modo queste sono riuscite, e riescono, a sopravvivere alla fase emergenziale e come (e se) ne sono state trasformate. Per ragionare su queste dinamiche, è innanzitutto necessario collocare la pandemia all’interno di un quadro più ampio in cui altri driver di cambiamento impattano sulla struttura del variegato mondo del Terzo settore. L’orizzonte della ricerca, dunque, non è si è concentrato unicamente sull’impatto di breve termine della pandemia, ma si è allargato fino a comprendere una riflessione di medio periodo che permettesse di delineare alcune linee di trasformazione con radici più profonde. Coerentemente con queste domande di ricerca, resta sullo sfondo il ruolo che le organizzazioni nonprofit hanno avuto in questa delicata fase, e la ricostruzione del contributo dato in particolare in relazione all’implementazione delle misure previste dai vari DPCM che si sono susseguiti nel periodo pandemico.
Un ulteriore tratto distintivo della ricerca è quello di tenere insieme il livello nazionale con quello locale. La scelta muove dalla consapevolezza che solo sui territori è possibile cogliere quei processi di grana fine che permettono una migliore comprensione delle dinamiche innescate dalla pandemia, e delle interazioni con i contesti locali su cui innestano. Per questo motivo la ricerca si è articolata in due fasi: un primo step dedicato alle trasformazioni a livello nazionale, esplorate attraverso dati e interviste a testimoni qualificati, e un secondo in cui sono stati analizzati, attraverso interviste e analisi documentale, due contesti locali.
Il report prodotto ricalca dunque il disegno della ricerca, e si compone di due parti. La prima parte contiene una sezione introduttiva dedicata all’analisi dei dati, un affondo sulle precedenti ricerche sul Terzo settore nel contesto pandemico, e l’analisi dei temi emersi dalle interviste dei testimoni qualificati, che dispongono di uno sguardo privilegiato sulle dinamiche di livello nazionale. La seconda sarà invece dedicata all’analisi delle realtà locali di Biella e Foggia, oggetto di due studi di caso. Completano il documento alcune riflessioni conclusive e un’appendice contenente la totalità dei dati analizzati e il dettaglio della documentazione empirica raccolta.

This report illustrates the findings of a qualitative study that explored Italian academics’ relationship with distance teaching during the Covid-19 pandemic emergency. Specifically, 18 focus groups with 4 to 8 participants each were held at several universities throughout the country, for a total of 98 participants. Two focus groups were held at each university, one with faculty members in the humanities, and one with faculty members in scientific disciplines. Participants were heterogeneous in terms of gender and career stage, and were selected at random from the CINECA lists. The focus groups took place online, and were video/audio recorded. The material thus collected was analyzed via a grounded and iterative coding process involving repeated rounds of data analysis and discussion among the researchers.

The analysis led to a number of interesting insights, which have been grouped under four main headings.

  1. A controversial question;
  2. Teaching in crisis;
  3. The rediscovery of teaching;
  4. Hopes and fears for the future.
A lungo l’Italia è stata considerata the “real sick man of Europe”, a causa del drammatico rallentamento della sua crescita economica. Nel corso degli ultimi 25 anni, infatti, il Pil pro-capite ha perso ben 30 punti percentuali rispetto alla media europea (fatta pari a 100), passando da un valore di 126 nel 1995 ad uno di 94 nel 2020. Considerando la stagnazione economica e le difficoltà nel trovare nuovi percorsi di sviluppo che ha caratterizzato il paese negli ultimi trent’anni, la capacità di reazione italiana alla crisi pandemica appare sorprendente. È grazie a questa inaspettata capacità reattiva, che nel corso del 2021, la percezione del sistema Italia ha visto una radicale inversione di rotta.
Le organizzazioni internazionali hanno iniziato a formulare previsioni di crescita di breve periodo superiori a quelle degli altri Paesi europei. Alcune agenzie di rating hanno migliorato il loro giudizio sulla solvibilità del debito pubblico e molti leader internazionali hanno espresso un forte apprezzamento per il comportamento tenuto durante la pandemia.
Nel corso degli ultimi due anni, il discorso pubblico si è frequentemente soffermato sulla condizione psicologica e sociale dei più giovani, meno colpiti in termini di infezioni e decessi a causa del Sars-Cov-19, ma bruscamente interrotti nei loro corsi di vita in costruzione. Gli effetti di tale crisi generazionale, ancora in corso, hanno prodotto numerose conseguenze nella sfera emotiva, psicologica, sociale e formativo-professionale dei giovani e degli adolescenti, dimensioni che saranno oggetto della ricerca qui presentata.

Tutto questo e avvenuto in una realtà come quella italiana dove i giovani erano "i perdenti della globalizzazione" e dove le ricerche mostravano già prima della pandemia le difficolta dei giovani a trovare lavoro e a immaginarsi e progettare il loro futuro e la loro transizione alla vita adulta. Forse anche stretti da un contesto economico e sociale che spesso offre loro poche opportunità.

Nella ricerca "Pandemia e Giovani" realizzata sul territorio di Torino e provincia, abbiamo allora indagato a fondo sia le emozioni da loro provate dall’inizio della crisi sanitaria, sia le strategie da loro utilizzate per affrontare questo periodo carico di incertezze. Si tratta di una ricerca dell'Università di Torino, del Dipartimento di Culture, Politiche e Società e dell'Osservatorio Università e Professioni e del Centro Luigi Bobbio. Nella ricerca abbiamo tentato di cogliere le loro difficoltà, ma anche di sondare se si intravedono degli spazi positivi in termini di crescita e di proiezioni verso il futuro, nonché di acquisizioni di abilità e competenze che, spesso, i periodi difficoltosi obbligano a mettere in campo. Ci siamo posti l'obiettivo di verificare se i giovani, in questo periodo di difficoltà, abbiano acquisito anche insegnamenti e abilità utili a vivere meglio e a superare ulteriori ostacoli che si proporranno lungo il loro corso di vita. La ricerca si propone di suggerire specifiche azioni che possano rinforzare le abilità acquisite.

In particolare, abbiamo rilevato:
  • le emozioni provate dagli adolescenti e dai giovani torinesi nei mesi successivi allo scoppio dell’emergenza sanitaria (emozioni positive e negative, tra cui gioie e paure; solitudine; i vissuti di destabilizzazione e la paura dei cambiamenti)
  • le strategie da loro utilizzate per affrontare questo periodo, cosa li ha aiutati a gestire i cambiamenti e l'incertezza di questo momento
  • il livello di compliance alle restrizioni e alle misure anti Covid
  • come si è modificata la percezione del futuro e come si sono immaginati nella realizzazione lavorativa in un clima di generale incertezza.
Nell'estate del 2019 il «Centro Luigi Bobbio» dell'Università di Torino ha svolto un'indagine sulle rappresentazioni sociali dello sviluppo, intervistando un ampio campione rappresentativo di 2.000 cittadini piemontesi e 2.000 italiani, e un campione a “scelta ragionata” di 169 testimoni qualificati del Piemonte, selezionati a livello regionale e provinciale tra i rappresentanti del mondo associativo, politico e istituzionale. La ricerca, realizzata prima dell'esplosione dell'emergenza Covid-19, restituiva uno sguardo molto preoccupato sul futuro della regione e del nostro paese. Una sensazione di declino che, seppure non inevitabile, veniva percepita come altamente probabile. Proiettandosi in un orizzonte temporale di dieci anni, la maggioranza relativa degli intervistati immaginava una situazione sociale ed economica peggiore rispetto a quella allora presente. Il pessimismo, in particolare, prevaleva tra i giovani, i ceti popolari e i lavoratori autonomi.
L'indagine, realizzata dall'istituto Demetra, è stata ripetuta tra il 7 giugno e l'8 agosto 2021, in collaborazione con Noovle, una società del gruppo Telecom, intervistando un campione rappresentativo di 1.000 cittadini piemontesi e 1.000 italiani e un campione a scelta ragionata di 161 testimoni qualificati del Piemonte. I risultati mostrano che la pandemia ha cambiato radicalmente lo scenario, rilanciando l'ottimismo. Quest'ultimo denota un atteggiamento positivo verso il futuro, che induce a ritenere più probabile il verificarsi di avvenimenti favorevoli piuttosto che il contrario. Si tratta perciò di un modo particolare di guardare al domani, anticipando delle previsioni positive. Ciò che possiamo dire oggi è che il futuro immaginato dai piemontesi e dagli italiani per il prossimo decennio è più favorevole di quanto non lo fosse prima della pandemia.
Il presente report illustra i risultati di una ricerca qualitativa volta ad indagare in profondità il rapporto degli accademici italiani con la didattica a distanza durante l’emergenza pandemica di Covid-19. Nello specifico, la ricerca ha previsto la conduzione di 18 focus group in diversi atenei distribuiti su tutto il territorio nazionale, che hanno coinvolto tra i 4 e gli 8 partecipanti ciascuno, per un totale di 98 partecipanti. In particolare, in ciascuno degli atenei sono stati condotti due focus group, uno con docenti di discipline umanistiche e l'altro con docenti di discipline scientifiche, eterogenei per genere e stadio di avanzamento della carriera, selezionati casualmente a partire dalle liste CINECA. I focus group sono stati condotti online, e video-audio registrati. Il materiale raccolto è stato analizzato attraverso un processo di codifica grounded e iterativo che ha previsto ripetute sessioni di analisi dei dati e confronto tra i ricercatori coinvolti.
Dall'analisi sono emersi numerosi e interessanti insight, che sono stati raccolti intorno a quattro fuochi principali: 1) Un tema controverso; 2) Una didattica di crisi; 3) La riscoperta della didattica, 4) I timori e le speranze per il futuro.
Durante l’emergenza Covid-19, le Università italiane hanno assicurato la continuità della funzione formativa svolgendo la loro didattica “a distanza” (DaD). Come hanno vissuto quest’esperienza i professori e i ricercatori impegnati in prima linea nell’insegnamento? È andato davvero tutto bene? E, soprattutto, finita l’emergenza, che cosa rimarrà di quanto appreso da questa esperienza? È possibile trarne alcuni insegnamenti che possano migliorare la didattica di quella che sarà la “nuova normalità della vita universitaria”?
A seguito della ricerca nazionale condotta in giugno 2020 il Centro “Luigi Bobbio” ha replicato l’indagine, nel mese di luglio 2020, su tutti i docenti dell’Università di Torino, inclusi quelli a contratto. Al questionario hanno risposto in 986, con un tasso di risposta che ha superato il 40% tra i docenti e ricercatori di ruolo e a tempo determinato.